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La sera Fiesolana.

GABRIELE  D'ANNUNZIO



La sera fiesolana

La sera fiesolana merita di essere tutta esaminata, perché è il tipo di quelle liriche del terzo libro delle Laudi, che si scindono in più altre, ciascuna bella per sé, e tenute insieme da un lievissimo legame esteriore oltre, s'intende, il titolo. 

Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso nella man di chi le coglie
silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta
su l'alta scala che s'annera
contro il fusto che s'inargenta 
con le sue rame spoglie
mentre la luna è prossima alle soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace 
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla. 
Laudata sii pel tuo viso di perla, 
o Sera, e pé tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l'acqua del cielo!

Si vede subito che la bellezza delle parole, simile a quella del fruscio che fan le foglie, è un semplice pretesto per lo svilupppo dell'immagine: questa è così ricca e così completa, così chiusa in se e perfetta, e predominante, che alla freschezza delle parole non ci si pensa più affatto. Non ancora si vede la luna, <<ma è prossima alle soglie cerule>>: nasce tra umidi vapori, preceduta da un velo, che essa distende davanti a sé. Nel silenzio, è in quel glauco e umido albore che noi sentiamo la pace della campagna sotto il cielo; e là <<il nostro sogno si giace>>. Di là partono l'anima e il sentimento che investono la campagna: pare che questa sia già tutta dominata dalla notte sopravvenuta. Nel giorno vivido e travagliato non sperò con noi la terra questo glauco silenzio? Il silenzio è profondissimo: la strofa, ad esprimerlo, comincia col <<fruscio che fan le foglie del gelso ne la man di chi le coglie silenzioso e ancor s'attarda all'opera lenta>>. Poiché l'anima di tutto il paesaggio e il ciclo, poiché là <<il nostro sogno si giace>>, efficacissimo è qel senso di avvicinamento al cielo che dà l'uomo sull'alto della scala. La scala s'annera, il fusto s'inargenta: sono i chiari e gli oscuri, gli unici toni più forti del paesaggio, su cui lentamente dilaga l'albore grigio-perlaceo. Prorompe dalla visione la laude, sintesi della visione stessa, con una mirabile personificazione della sera: <<Laudata sii pel tuo viso di perla, o Sera, a pè tuoi grandi occhi ove si tace l'acqua del cielo!>>. La sera ha un verso, che è di perla; e due occhi, evanescenti, vaporati di lagrime. La seconda strofa è un altro paesaggio; del tutto diverso, che comincia anch'esso con un pretesto: 

Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva, 
commiato lacrimoso de la primavera, 
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l'aura che si perde,
e su il grano che non è biondo ancòrra
e non è verde, 
e su'l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi,
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.
Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!

Un'infinita dolcezza ha la pioggia di giugno, verso sera: tenue, tiepida, quasi s'invola mentre sta per cadere e appena cade, fuggitiva. Potrebbe sembrare troppo lunga e particolareggiata l'enumerazione degli alberi e della verdura su cui cade; i gelsi, gli olmi, le viti, i pini, il grano, il fieno, gli olivi, con tutte le loro determinazioni. Il <<bruire>> della pioggia si propaga per tutta la strofa, attenuando musicalmente il senso preciso delle parole. E poi, tutto, quel verde, che sembra enumerato, acquista forza di sinttesi nelle laide, che è bella quanto quella prima strofa: <<Laudata sii per le tue vesti aulenti o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce il fien che odora!>>. Quella vegetazione odorosa e bagnata costituisce le vesti aulenti della sera. Come il salce il fien che odora, così quel cinto cinge la sera! Con un altro lieve pretesto segue l'ultima strofa: 

Io ti dirò verso quali reami
d'amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l'ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti; 
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s'incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dirre
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l'anima le possa amare
d'amor più forte.
Laudata sii per la tua pure morte, 
o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare 
le prime stelle!

Due immagini ben distinte ha questa strofa, e senza visibile legame: le fonti dei fiumi e le colline. La seconda sovrasta, e fa dimenticare l'altra: se qualcosa le congiungge è solo il pretesto <<ti dirò>>. Il profilo di dolci colline al vespro un profilo preciso e puro, quale appare ritagliato sull'ultima luce di ponenete, è una consolazione e una pace per lo spirito, che puramente lo contempla. Misterioso è il senso di pace e d'amore, che le colline ci danno col riposo delle loro linee sulla luce. Il loro segreto è indicibile: <<E ti dirò per quel segreto le colline su i limpidi orizzonti s'incurvino come labbra che un divieto chiuda>>. Chi però le contempli a lungo e ripetutamente, sentendo crescere il fascino, crederà di esser sul punto di strappar loro una maggior parte del loro mistero; crederà di sentirle avvicinare al proprio desiderio: <<e perché la volontà di dire le faccia belle oltre ogni uman desire, sì che pare che ogni sera l'anima le possa amare d'amor più forte>>: crescono la pace, la consolazione e l'amore; e il segreto è sempre di là! La laude giunge qui, come prima a sintetizzare: <<Laudata sii per la tua pura morte, o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare le prime stelle!>>. Muore davvero puramente la sera in quell'ultima luce nitida e trasparente: il trapasso è fugace: le prime stelle palpitano: attendono! E come quest'attesa chiude il circolo del mistro, non svelato ma tanto consolante!

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