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La Figlia di Jorio è una fervida rappresentazione delle passioni e superstizioni barbariche d'Abruzzo

La <<Figlia di Jorio>> è <<una fervida rappresentazione delle passioni e superstizioni barbariche d'Abruzzo>>


Mila di Codro, La figlia di Jorio


Uno degli aspetti nuovi del teatro italiano del Novecento è, l'abbandono dell'imitazione francese per un ritorno a fonti e a ispirazioni nostrane. Un contributo indubbiamente notevole al rinnovamento del teatro italiano fu dato dal D'Annunzio, il quale nei primi drammi in prosa (La città morta, La Gioconda, La Gloria), scritti negli ultimi anni dell'Ottocento, si richiamava alla tragedia dell'antica Grecia; tuttavia l'abuso della parola, la sonorità verbale e l'ostentato componimento oratorio dimostrano che si trattava di una innovazione soltanto formale.
Maggior successo e più ampio consenso di critica riportò invece la Francesca da Rimini (1902), una tragedia in cinque atti, in cui il D'Annunzio abbandona la prosa troppo sonora e usa il verso. <<Poema di sangue e di lussuria>>, la tragedia è un'abile ricostruzione dell'ambente e del lnguaggio duecentesco. E naturalmente si tratta di un Medioevo tipicamente dannunziano: lussuria e violenza sono le due passioni che cozzano tra loro nella cornice di una Rimini splendida di opere d'arte, violenta e passionale. Anche i personaggi, più che drammatici sono voluttuosi o selvaggi.
L'azione si svolge nel selvaggio Abruzzo, Mila di Co dro, una donna perduta, inseguita da una turba imbestialita di mietitori, irrompe nella casa del pastore Aligi, proprio nel giorno in cui si svolgono i riti tradizionali per il matrimonio che Aligi ha contratto ma non ancora consumato. Il giovane pastore rimane misteriosamente attratto dalla donna; dopo averla salvata dal linciaggio della folla, Aligi abbandona la sposa e va a vivere in purità con Mila sulla cima di una montagna. Egli pensa di chiedere al Papa l'annullamento del matrimonio non consumato per potersi unire alla donna amata. Ma le speranze dei due giovani vengono bruscamente troncate da Lazzaro, padre di Aligi, il quale, invaghitosi della giovane, sale sulla montagna e vuole Mila per sé. Di fronte all'oscena violenza del padre, Aligi, cieco di orrore, afferra un'accetta e lo uccide. Condotto in paese il parricida è condannato a morte dal popolo. Ma ecco che Mila compare e assume su di sé la responsabilità del delitto: Aligi si crede colpevole, unicamente perché è stato da lei stregato. Aligi, sopraffatto anche dai narcotici che gli hanno fatto sorbire in previsione del supplizio, si lascia convincere. La povera Mila sale così sul rogo, maledetta da tutti, anche da colui per il quale si è sacrificata.
Giovò indubbiamente al D'Annunzio l'essersi abbandonato liberamente, con la sua fantasia, al mondo favoloso e suggestivo delle tradizioni e delle superstizioni della gente d'Abruzzo, senza ricorrere eccessivamente al peso dell'erudizione; egli stesso definì il dramma <<un canto scaturito da una sorgiva più profonda della mia anima stessa, sgorgato dalle vene perenni di tutta la mia gente>>. E proprio le cantilene popolari, che sembrano risuonare  fuori del tempo, in un'aura di sogno e di lontananza, rappresentano il fascino di questo dramma singolare, che unisce alle note crudamente realistiche il senso dell'irreale e del favoloso.

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