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Romanzo italiano del Novecento. Premessa metodologico-storica. Gli snodi stilistici e letterari fra Otto e Novecento

Romanzo italiano del Novecento

Premessa metodologico-storica

Gli snodi stilistici e letterari fra Otto e Novecento


Giacomo Leopardi

Nello svolgersi del proprio iter (storico, tematico, strutturale, ideologico), la letteratura si è spesso imbattuta in pietre d'inciampo che ne hanno ostacolato la linearità del percorso oppure che è riuscita ad aggirare. La storia letteraria è tutta un susseguirsi di movimenti e di poetiche, ora contraddittori, ora progressivi, che hanno determinato un evolversi di rivoluzioni lingustiche, strutturali, formali che non hanno segnato soltanto il tempo della letteratura, ma anche il costituiri del gusto, della sensibilità, del costume, dell'essenza della società e dell'uomo stesso. Ogni operazione di scrittura compiuta dallo scrittore non è mai stata un gesto di sempplice risoluzione formale di un atto compositivo. In ogni momento l'esercizio della parola si è sempre scontrato con degli snodi che sigono di essere sciolti sia nellaa loro realtà rappresentativa sia nell'interpretazione che ne segue, ossia nel moto inscindibile tra letteratura e critica. Visto in quest'ottica, il passaggio fra Ottocento e Novecento, due epoche, piuttosto che due secoli, suggerisce, proprio per un tempo a noi ancora prossimo, eppure ormai storicamente classificabile, come il Novecento, delle prospettive di sistemazione soggette a ipotesi verificabili da più punti di vista. 
Ogni discorso sul Novecento letterario italiano non può prescindere da un richiamo preliminare alla sua configurazione iniziale sotto il profilo storiografico. Se la storia della nostra letteraturaa ci consegna una immagine dell'Ottocento che, si persenta quanto meno incerta, con la sola eccezione di Verga, e, per taluni aspetti, anche edulcorata e lacrimosa, nonostante la contestazioen della Scapigliatura; e se il Novecento sembra invece offrire di sé, specie nella sua fase inizale, una visione più mossa, all'insegna del nuovo, della modernità, dell'avanguardia; ebbene, se questa è agli occhi dell'osservatore la prospettiva storica del transito letterario da un secolo all'altro, il trapasso dall'Otto al Novecento, visto attraverso l'evolversi dei movimenti e delle poetiche, della rpesenza degli autori e dei testi, in realtà non è poi affatto così brusco, né denunzia una frattura scomposta. 
Il passaggio dall'Otto al Novecento è stato garantito in prima istanza dall'opera di due scrittori fra loro diversissimi come D'Annunzio e Pascoli. Entrambi hanno sperimentato forme nuove, il Pascoli con le sue soluzioni fonosimboliche, ma tutti e due partivano da una concezione della letteratura a cui non si sarebbe affatto richiamata di lì a qualche decennio appena la rivoluzione avanguardistica che caratterizzerà gli anni del primo Novecento. Ma quella è la nostra storia, la reaaltà di un Ottocento risorgimentale e civile, patriottico e politico, rispetto a quanto avveniva nelle letterature europee. In Italia, l'avanguardia è coincisa con la partecipazione letteraria alla costituzione dell'unità nazionale. Senza però dimenticare quanto il romanticismo europeo deve al contributo di Manzoni, come gli è stato riconosciuto da Stendhal, Victor Hugo, Sainte-Beuve. Il riferimento alla Francia è quasi d'obbligo, essendo il luogo in cui si sono avute le grandi esperienze della ppoesia pura e del simbolismo, e dove è stato possibile ad uno studioso come Marcel Raymond di delineare quello straordinario percorso poetico e critico che va Da Baudelaire al Surrealismo, quindi la storia fonde creazione letteraria e fermenti sociali in un discorso culturale onnicomprensivo. 


Gabriele D'Annunzio

La condizione culturale italiana è stata il riflesso storico di una situazione sociale che va snodata nelle sue componenti specifiche. E' vero che nel nostro contesto letterario le ultime propaggini della scapigliatura sono arrivate fino agli inizi del secoo scorso e sono proseguite anche oltre; così, come non è da trascurare che i primi due romanzi di Svevo, Una Vita e Senilità, sono stati pubblicati ancora negli ultimi anni dell'Ottocento. La letteratura prodotta sul declinare di quel secolonon offriva sspunti degni di avviare e sostenere un discorso di formazione del nuovo avendo come punto di partenza l'estrema tradizione ottocentesca. La poesia non aveva seguito la grande lezione lirica in direzione moderna di Leopardi, bloccata com'era stata dalla forte personlità in senso classico di Carducci; romanzo e teatro Verga a parte, procedevano all'insegna della maniera naturalistica generando dignitose opere minori; la critica e la riflessione letteraria, divaricata fra lo storicismo di De Sanctis e la filologia carducciana, si rinchiuse nell'università dedicandosi ai suoi studi umili ed eruditi, ma che presto diedero vita alla scuola torinese del metodo storico: questo è ciò che di più rigoroso e più serio ha prodotto la cultura letteraria italiana di fine Ottocento, e che darà i suoi frutti anche negli anni a venire improntando il carattere degli studi. 
Queste considerazioni non prescindono da D'Annunzio e da Pascoli, i quali fanno parte di questo insieme perché è l'insieme del loro tempo, ma essi contano per altri motivi: perché hanno indirizzato la loro ricerca fuori della norma e si sono spinti verso un'espressività diversa, pur attingendo ad un bagaglio culturale tradizionale. D'Annunzio precede Pascoli in sequenza cronologica, ma anche perché la sua straordinaria esperienza creativa si è inserita in maniera articolata e complessa nel quadro culturale di transizione tra Otto e Novecento per via della sua presenza in tutti i campi intelletuali, da quello letterario in ogni genere a quello giornalistico, a quello mondano. Il comportamento spregiudicato di D'Annunzio ha portato la figura dello scrittore ad un rango mondano mai prima d'allora attinto. Egli sembrò riprendere a fare proprio l'atteggiamento critico contro l'impoverimento spirituale della nuova società già manifestato drammaticamente al comportamento scapigliato. Nei pochi anni che intercorrono fra queste due esperienze, la vita sociale è molto mutata, e con lui, attore di eccezione, il sofferto maledettismo scapigliato divenne occasione di esibizione mondana. Egli visse la propria esistenza come se fosse sempre sulla scena, come un vero personaggio di romanzo, ma secondo un'idea di letteratura, la propria, che non aveva nulla a che spartire con il naturalismo allora dominante.                                                                                                                                                                                                              

                                                                 Giovanni Pascoli

Attorno agli anni Ottanta dell'Ottocento, a Napoli, ferveva una curiosità che, tramite Vittorio Pica, saggista e critico di avanguardia, autore di una trascurata, eppure notevole raccolta di studi sul decadentismo, Letteratura d'eccezione, portava a vedere pubblicati versi di Mallarmé prima ancora che in Francia. Mentre il nuovo premeva alle porte, il vecchio rimaneva arroccato sui astioni di un tradizionalismo che non trovava la forza di rigenerarsi: Mancava di invenzione sul piano creativo e di risorse per rimettere in discussione se stesso e suggerire strumenti nuovi di ricerca. 
A sgombrare il campo su ogni possibile persistenza su posizioni arretrate, è venuta la riflessione di Benedetto Croce, che, orientò la ricerca intellettuale verso prospettive diverse nel segno dell'idealismo e chiuse, in maniera definitva, in discorso del secolo, pur rappresentandone, paradossalmente, il canto del cigno. Anche Croce, come del resto D'Annunzio e Pascoli, era un figlio dell'Ottocento che ha creato un'opera che ha agito in profondità nel Novecento, per lo meno nella prima metà del secolo. 


Giovanni Verga

Partito da interessi di tipo storico ed erudito, ma anche con qualche curiosità per i movimenti di letteratura d'arte che circolavano a Napoli alimentati dal Pica, Croce ha poi spostato a poco a poco il suo indirizzo di ricerca e di studio su un terreno di pura analisi filosofica ed estetica. Questa metamrofosi antiletteraria racchiude, il processo di una straordinaria evoluzione intellettuale che ha condotto alla costruzione di un sistema metodologico la cui portata ha dominato la vita culturale italiana per tutta la prima metà del Novecento. La lezione di Croce si è esercitata sul terreno pratico dell'attività filosofica e letteraria, estendendosi alla didattica, ma ne ha anche investito la sfera morale. Con la sua dedizione allo studio come unica ragione di vita, dopo un iniziale accostamento al fascismo, ben presto rimosso, e da concessioni alla mondanità, dove invece sguazzava D'Annunzio, da lui riconosciuto poeta, ma per definirlo anche ingenerosamente "dilettante di sensazioni", Croce ha rappresentato un punto di riferimento essenziale per tutti coloro che faccevano professione di cultura, nonostante la sua posizione denunciasse limiti e chiusure nei confronti di esperienze letterarie più sperimentali e d'avanguardia. L'esperienza delle riviste fiorentine dei primi del Novecento propugnate da Prezzolini e Papini lo confermano. 


Giuseppe Prezzolini

L'ubiquità di Croce fra Otto e Novecento è diversa rispetto a quella di D'Annunzio e Pascoli. La sua riflessione critica nasceva da una reazione verso concetti filosofici che riteneva inadeguati, ma soprattutto eggli impostava un ragionamento globale sull'essenza del ruolo intellettuale. Il suo ragionamento metteva in discussione le questioni sostanziali e di fondo della manifestazione espressiva e non si limitava ai soli aspetti formali. La confusione che regnava nella cultura italiana di fine Ottocento, venne spazzata via dalle indicazioni metodologiche e sistematiche crociane esposte nel 1902 con l'Estetica. La letteratura, nell'accezione alta della "poesia", come la intendeva Croce, ritrovava una dimensione assoluta che annullava le ambiguità, la provvisorietà, l'incertezza dei valori.
C'era in Croce un'esigenza prioritaria di chiarezza concettuale che si manifestava nel creare preliminarmente delle rigided distinzioni estetiche, per poi operare con coerenza nell'espressione del giudizio di valore. Questa opposizione metodologica, lo ha portato a costruire un sistema estetico rigido, fondato su una serie di antinomie che rispondevano ad un disegno ideale, ma astratto. Basti pensare alla contrapposizione fra "poesia" e "non poesia". Lo schema oppositivo fra le due condizioni egli lo applicò soprattutto nei confronti delle forme più ardite del decadentismo europeo e nostrano. Abbiamo già ricordato i termini perentori con cui liquidò D'Annunzio e Pascoli, quasi più da psicologo che da critico letterario. Il suo scrittore ideale era un poeata classico come Carducci, la bestia nera uno sperimentatore di forme e di suoni come Mallarmé. Il limite di gusto e di sensibilità lo spinse al punto di porre dei limiti persino ad alcune delle esperienze fondamentali della poesia moderna, da Laopardi a Baudelaire. 
Altra discutibile presa di posizione crociana riguarda, la negazione dei generi letterari, posizione che implica anche la chiamata inc ausa del romanzo, il genere disdegnato da Croce ma in cui si identifica l'espressione della modernità. E' significativo, che Croce abbia trascurato una esperienza così fondamentale come quella romanzesca che, proprio in quanto genere, stava conoscendo una radicale trasformazione formale e di struttura con le esperienze linguistiche e tecniche di romanzieri come Proust, Joyce, Kafka, Musil, gli americani. E da noi con l'apertura di Pirandello e Svevo. 


La Voce

Croce era estremamente sicuro di sé e, in forza della sua logica, dava direttive sicure, schematizzava e, dal suo punto di vista, portava ordine. La letteratura era allora portata ad una ricerca di novità, a tentare esperimenti e ad entrare in un terreno che invece Croce interdiva in assoluto come "non poesia". E' in questo modo irrisolto fra la noostra tradizione classicheggiante e lo spirito di novità con cui il Novecento si apriva, che si è consumata la rottura fra la concezione crociana improntata ad una visione ideale della letteratura e la ricerca che la letteratura contemporanea portava avanti con una spinta di apertura e di avanguuardia che ha contrassegnato gran parte del movimento culturale novecentesco. 


Come appare evidente anche da questa schematizzazione, il trascorrere fra Otto e Novecento è il periodo che ha fatto da sfondo a un movimento in divenire di cui, però, nell'aria circolavano già le avvisaglie. La Scapigliatura: la sua esperienza, caratterizzata dai tratti interculturali delle Tre arti di Giuseppe Rovani, che vanno dalla letteratura all'arte della musica, si è prolungata fino adddentro alle soglie del Novecento ed ha continuato ad alimentare fermenti e inquietudini che, seppure latenti, erano tuttavia dedstinati a manifestarsi in termini contrastivi. La letteratura ne interpretava gli aspetti più estremi e contraddittori nel tentativo di dare un senso quell'esigenza di novità che emergeva da uno stato di disordine che, seppure creativo, impediva, per esempio secondo Croce, una considerazione razionale dell'analisi e della valutazione dei valori. 
Da quell'insieme di snodi, sortivano reazioni individuali. Ne è testo la testimonianza di uno scrittore isolato, irregolare, solitario come Gian Pietro Lucini, uno scrittore che non è inquadrabile in alcun movimento del periodo e che si contraddistingue per la sua radicale posizione di rottura nei confronti dei valori culturali della tradizione. Lucini esigeva novità sotto ogni aspetto di contenuto e di forma: a rivederli oggi, i suoi libri non formano opera, sono sperimentali e polemici, e di qui traggono la loro forza espressiva, ma anche i loro limiti esasperati: egli aderiva, quasi visceralmente al Carducci interprete della violenza poemica dell'Inno a Satana: tra i suoi autori troviamo Carlo Dossi, tra i rifiutati D'Annunzio; è stato esemplare il suo accanimento in favore del verso libero perché rompeva convenzioni metriche e strutture strofiche. Rispetto alle istanze di novità della cultura coeva, Lucini si spinse molto più avanti, con l'esempio lampante del farraginoso libro sul verso libero, Ragion poetica e Programma del Verso libero. Grammatica, ricordi e confidenze per servire alla storia delle lettere contemporanee, e fino ad anticipare istanze proprie del Futurismo, nel quale Marinetti tentò goffamente di arruolarlo. 
In tal senso, Lucini risulta oggi un caso unico e, il più estremizzato dello spirito polemico dell'epoca. Secondo Edoardo Sanguineti, egli ha saputo interpretare, più di ogni altro, il ruolo dello scrittore che, nella sua solitudine e con la sua irregolarità, si è rivelato il più prossimo e radicale anticipatore dell'avanguardia del primo Noevecento. E siamo così ginti al momento topico, quello che può essere considerato il vero snodo storico e letterario del trapasso fra Otto e Novecento. Il discrimine lo ha segnato l'insorgere organizzato dell'avanguardia che in Italia ha come punto focale il Manifesto del Futurismo lanciato da Marinetti e pubblicato il 20 febbraio 1909 su "Le Figaro" a Parigi, capitale mondiale riconosciuta da tutti i movimenti delle avanguardie storiche della contemporaneità. Con il Manifesto, Filippo Tommaso Marinetti è stato "l'uomo dell'rganizzazione" dell'avanguardia italiana ed europea. Al Manifesto futurista princepes del 1909, ne fecero seguito altri, concernenti i vari generi della letteratura, dell'arte, del costume, che erano aggrediti e cadevano vittime della furia polemica dei partecipanti al movimento marinettiano. La raccolta di tutti questi interventi è poi confluita nel 1914 in un volume, I Manifesti del Futurismo. Dato questo carattere emblematico di "estetica" del movimento, il volume raccolse consensi e dissensi, anche pittorescamente violenti, sul piano del dibattito critico. La suggestione del futuro, che Marinetti perdicava, con immagini provocatorie e roboanti, diventate anche luoghi comuni, e sostenuta anche dall'illusione ottica e "rumorosa" delle parole in libertà, sedusse artisti e intellettuali e li aggregò in un movimento intellettuale del periodo, ma che oerò anche sul costume italiano del secolo. Il nome del movimento divenne anche sinonimo di atteggiamento e di comportamento etico. Il peso culturale del Futurismo non va dunque misurato soltanto come un isolato evento culturale italiano, la manifestazione di un snodo nazionalistico. Basti pensare alla eco coinvolgente che si espanse in Europa, alla partecipazione di un Apollinaire e alla diffusione dei suoi "calligrammes". Unitamente al coevo Espressionismo tedesco, il Futurismo ha aperto la strada alle avanguardie europee del primo Noevencento che definiamo storiche per distinguerle da quelle successive. Ma un diritto di primogenitura il Futurismo ce l'ha: a riconsiderare l'insieme dell'attività futurista, appare in primo luogo l'evidenza della sua programmaticità, il suo essere più organizzato, con una vera struttura di movimento. Marinetti come "l'uomo dell'organizzazione" futurista, ha anticipato Tristan Tzara e Dada, da cui si distingue per una intenzione artistica nuova e a suo modo costruttiva, mentre Tzara al Cabaret Voltaire di Zurigo teorizzava la  nullificazione dell'arte. L'intento negativo marinettiano mirava a sgombrare il campo dai residui a suo avviso deteriorati di una grande tradizione, i quali impedivano l'avvio di un processo ricostruttivo di novità pura. Il Futurismo non si esauriva, anzi si espandeva, mentre invece l'estremismo negativo di Dada si spense nel primo dopoguerra a Parigi, quando Breton se ne staccò per dare vita nel 1924 al Surrealismo il movimento che ha dato vita alla vera e grande avanguardia del Novecento. Aggiungendo che alla sua incubazione hanno dato un contributo determinante anche De Chirico e Alberto Savinio. 
Nonostante le diversità programmatiche e culturali che hanno contraddistinto i vari movimenti delle avanguardie storiche, nonché le poiszioni ideologiche assunte dai vari protagonisti sul piano politico, basti pensare alle difficoltà di Breton e dei surrealisti nei rapporti con il movimento internazionale comunista, va detto che Marinetti ha avuto il merito di far precipitare una crisi spirituale che era latente e che circolava in Europa, ma che era sentita anche da artisti e scrittori non europei. 
Agli inizi del Novecento, Gertrude Stein, Pound, T.S. Eliot, ma preceduti già da Henrry James, abbandonavano gli Stati Uniti per l'Europa e, installandosi tra Parigi e Londra, diedero un contributo determinante allo sviluppo di un concetto di avanguardia che, passando attraverso la letteratura, la pittura, la musica, andava nella direzione di una novità formale e sostanziale che coinvolgeva l'arte alla società? La Parigi di quei primi anni del Novecento, con il clima della Belle époque, divenne ben presto mito, con i suoi interpreti, da Proust con la Recherche a Picasso con Les demoiselles d'Avignon, da Stravinskij con Le scaré du primtemps ai balletti russi di Djaghilev. Con le avanguardie storiche, e con il Futurismo a fare perno, l'Europa ha esaltato ed esaurito la sua centralità culturale. 
In Italia lo spirito del nuovo si affermò dalla letteratura al costume con il clamore suscitato dalle enunciazioni programmatiche dei "manifesti" futuristi e dell'attività pratica con cui Marinetti predicava la nuova estetica comportamentale e che secondo lui avrebbe dovuto interpretare artisticamente il senso dei movimenti che stavano cambiando la realtà sociale e intellettuale del paese. Sotto la spinta marinettiana, non vennero prese soltanto le debite distanze estetiche. Il rifiuto si manifestò in maniera clamorosa e spettacolare, con una rottura radicale che determinò un caambiamento di prospettiva nel gusto, nella sensibilità, nella concessione stessa della manifestazione artistica che divenne manifestazione di costume e di moda. I miti e le forme espressive del Futurismo, ma srebbe più giusto dire le formule compendiate nei "manifesti", sono note e pur nella loro meccanicità verbale, grafica, di suono, realizzarono ugualmente un deciso intento polemico, incidendo a fondo nel provincialismo culturale italiano. 
La spinta verso la novità era in quegli anni più estesa e coinvolgeva settori intellettuali si estrazione diversa che contribuirono al rinnovamento culturale con una intensa attività pubblicistica. Gli inizi del Novecento non furono soltanto gli anni del Futurismo, ma anche delle riviste culturali d'avanguardia. 
Contemporaneamente nel 1903, Croce e Gentile da una parte e Papini e Prezzolini dall'altra fondarono "La Critica" e "Leonardo". E' stato solo l'inizio dell'apporto che la pubblicistica stava dando alla cultura italiana novecentesca, tanto chhe si potrebbe quasi dire che a fare la storia culturale del Novecento italiano siano state più le riviste, come espressione di laboratori di pensiero e creativi, che gli stessi uomini. 
"La Critica" di Croce è stata certamente il punto fermo della cultura italiana durante la prima metà del Novecento. 
Le riviste militanti del primo Novecento erano espressioni di posizioni ancora incerte, rispetto all'austerità della "Critica" crociana e al tocco grafico di "Poesia", ma che a modo loro tentavano di proporre un'apertura europea, suggestionate com'erano dal decadentismo, dalle provocazioni parigine, da Nietzsche. Viste in quest'ottica, è forse più facile entrare nell'ordine di idee della loro aggressività pubblicistica, comprendere gli aspetti della òolemica pragmatica del "Leonardo", la posizione più regolare, e, al limite, accademica dell'"Hermes" di Borgese, la funzione politica all'insegna del nazionalismo del "Regno" di Corradini, e considerarli come frutti particolari di un momento storico incerto e come l'espressione delle contraddizioni di una classe dirigente che stava perdere la sua prerogativa di guida di una nazione giovane, in crisi di crescenza, qual'era l'Italia umbertina. Sono riviste che, sembrano marginali rispetto all'incipiente esibizionismo marinettiano di contenuti e di realizzazione grafica alimentato attraverso "Poesia", mentre invece hanno lasciato un segno nel nostro tessuto culturale ed anche in seguito, quando ormai si era esaurita la loro funzione attiva, hanno fatto da camera di compensazione per prese di posizione che hanno alimentato scelte al di fuori del campo intellettuale. 
"La Voce", fondata da Giuseppe Prezzolini, ha fatto da contraltare intellettuale al Futurismo. Il primo numero apparve a Firenze il 20 dicembre 1908, precedendo di qualche settimana il Manifesto marinettiano, ma la quasi concomitanza della data di uscita non li avvicina affatto sul piano dell'impostazione e dei contenuti, anzi ne accentua la differenza. L'azione pubblicistica del giornale di Prezzolini fu di chiaro indirizzo militante e problematico sul terreno dell'intervento di costume e sociale. 
Nel 1913 si produsse una scissione del gruppo vociano, proprio nel segno della letteratura e in contrasto con la scelta filosofica propugnata da Prezzolini. Papini e Soffici, i due più autorevoli scrittori del gruppo, lasciarono la rivista e dettero vita ad un'altra, "Lacerba", proprio per garantire spazio a quella creatività e inventiva letteraria che nell'ambito della "Voce" essi ritenevano soffocata e compressa dall'eccessivo intervento ideaologico e politico che, tra l'altro, sfociò poi nell'interventismo a favore della guerra. L'ampiezza degli interessi del giornale di Prezzolini, più che rispecchiare un punto d'arrivo nelle polemiche letterarie tra la fine dell'Otto e gli inizi del Novecento (Verga e il Verismo, la ingiustificata triade Carducci-D'Annunzio-Pascoli, il Crepuscolarismo, il Futurismo), cosituì invece un punto di partenza per un diverso modo di intendere il ruolo della cultura in una società che stava trasformando le proprie strutture in senso moderno, senza però correggere gli errori del passato. 
Antonio Gramsci annotò nei Quaderni del carcere che l'impegno della rivista prezzoliniana, con le sue prese di posizione su più fronti della vita politica e sociale, esercitò un'attiva divulgazione culturale, ma, favorì annche l'affermarsi di fondate vocazioni letterarie. Diciamo che la prima "Voce", quella diretta da Prezzolini fino al 1914, dopo passò a Giuseppe De Robertis, fu un luogo d'incontro intellettuale dove la letteratura non si connotava ovviamente in maniera dannunziana, mentre spingeva la propria ricerca espressiva verso altre direzioni formali. La grande novità espressa dal clima che si respirava attorno alla rivista fiorentina era basata su una tensione morale verso l'imborghesimento sempre più diffuso, ma da interpretare in maniera creativa e non tradizionale. S'imponeva la necessità di rendere nella sua intensità lirica il moralismo che animava la ricerca letteraria e che coinvolgeva gli scrittori soprattutto sul piano autobiografico. Durante la direzione di De Robertis tra il 1915 e 1916, questa ansietà si espresse con un linguaggio più teso e drammatico, realizzando una tendenza stilistica che prese nome di frammentismo per via di un'espressiviità più concisa, di una forma prosastica frammentata, rispetto, per esempio, a costruzioni più articolate e narrative, in altre parole, di romanzo, come in Europa si respirava acora sull'onda della grande stagione del realismo romanzesco dell'Ottocento, ma, nello stesso tempo, già fermentavano i germi dell'antiromanzo novecentesco. 
Non è senza significato che in un periodo di grandi trasformazioni formali e strutturali come quello fra i due secoli, e basti appunto pensare alla stagione del grande romanzo europeo come genere della modernità, in Italia sia rimasto irrisolto lo snodo del romanzo e che tra i protagonisti intellettuali del passaggio fra i due secoli non si trovi neppure un narratore. E' chiaramente il frutto di un lascito ereditario tradizionale se a far da accompagnatori alla trasformazione letteraria novecentesca italiana troviamo un poeta: Pascoli; uno scrittore che è anche poeta e uomo di teatro: D'Annunzio; un filosofo e un critico: Croce. 
La grande stagionde dell'avanguardia e delle novità letteraie che ha inaugurato il Novecento, si è chiusa con lo scoppio della Grande Guerra. La maggior parte degli scrittori italiani era favorevole alla guerra, numerosi quelli che partirono volontari. Questa scelta rispondeva a una illusione di idealità. Pur senza giungere all'estremismo di Marinetti che considerava la guerra "la sola igiene del mondo", circolava fra gli intellettuali italiani l'idea che il confronto bellico, ancorché doloroso, fosse comunque necessario; un passo obbligato per attuare una rigenerazione morale ritenuta indispensabile per un paese come l'Italia, appena formatosi come nazione e con qualche conto ancora aperto sul piano dell'irrdentismo. 
Nell'Esame di coscienza di un letterato, scritto nel marzo del 1915, due mesi prima che l'Italia entrasse in guerra, Renato Serra, aveva espresso tutti i suoi dubbi sull'utilità morale e intellettuale dell'evento bellico. Per lui la guerra non avrebbe cambiato nulla, almeno per quel che riguuardava la letteratura: alla fine, lo scrittore avrebbe ripreso le sue pratiche abituali di penna e calamaio proprio dal punto in cui le aveva deposte per imbracciare le armi. Sotto un certo aspetto aveva ragione, ma la storia ci ha detto poi che la guerra ha cambiato in peggio il volto del nostro paese e fatto pagare un tragico pedaggio che, purtroppo, si sarebbe ripetuto più tragicamente. 
A guerra finita, quando il tran tran letterario riprese il suo corso, lo scrittore si ritrovò di nuovo alle prese con quei problemi che "la Voce" aveva lasciato aperti. Solo che alla responsabilità di farsi carico di criticare il peso di quell'eredità; si andava ad aggiungere anche l'inevitabile disordine postbellico destinato a sfociare alcuni anni dopo, nel fascismo, ccon il ripetersi di altre e ancor più dolorse tragedie. 

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